Sì, bisogna essere particolarmente presuntuosi per cercare di spiegare qualcosa ad un premio Nobel, ma correremo il rischio. Il recente crollo di FTX ha offerto un fianco facile da attaccare a Paul Krugman, nobel per l’Economia e profeta di sventura a ritmo regolare, non solo per il mondo di Bitcoin ma anche per altri settori dell’economia.

Un buon profeta? Lo storico delle sue dichiarazioni affermerebbe il contrario e quindi, anche approfittando dell’ozio domenicale, cogliamo l’occasione per toglierci qualche sassolino dalla scarpa e per rispedire al mittente anche le accuse non troppo velate di antisemitismo che il Nobel ha mosso verso gli appassionati di Bitcoin.

Nel frattempo, e questa forse è la nota più positiva della settimana, l’intero comparto resiste e fa le barricate su livelli di prezzo interessanti, ma ancora bassi. Chi vuole acquistare Bitcoin o cripto può trovarle anche su eTorovai qui per ottenere un conto virtuale gratuite per testare le funzioni anche AVANZATE e PREMIUM – intermediario che ci permette di investire su 78+ cripto asset, dai più famosi a quelli invece emergenti.

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La strategia coordinata per attaccare Bitcoin e cripto

Anche un orologio rotto, afferma una vecchia, segna l’ora giusta due volte al giorno. Ed è un po’ questa la cifra del folto gruppo di esperti che ha approfittato del caos FTX per tornare ad attaccare Bitcoin e cripto. Sono nomi noti e non è la prima volta che attaccano il comparto e che nel corso degli anni sono stati smentiti tanto dai prezzi, quanto invece dalla resistenza incredibile di Bitcoin a qualunque tipo di attacco.

Una buona domanda, con una pessima risposta

Gli ultimi due che ci vengono in mente, e che citiamo anche per l’enorme seguito che hanno, sono Nassim Taleb e Paul Krugman. Il primo un tempo si era lasciato affascinare da Bitcoin, tanto da firmare la prefazione dell’ormai leggendario The Bitcoin Standard di Saifedean Ammous. Il secondo ama attirare l’attenzione su di sé con previsioni tranchant che, puntualmente, non trovano riscontri nella realtà. Come quella che forse tutti i nostri lettori ricorderanno, riguardante Internet.

La crescita di Internet rallenterà drasticamente, non appena gli errori della Legge di Metcalfe – che afferma che il numero delle potenziali connessioni in una rete è proporzionale al quadrato del numero dei partecipanti – diverranno chiari: il grosso delle persone non ha nulla da dirsi l’un l’altra. Entro il 2005 circa diventerà chiaro che l’impatto di Internet sull’economia non sarà maggiore di quello dei fax.

Se è vero che dal mondo degli investimenti abbiamo appreso che la performance passata non è necessariamente indice di performance futura, è altrettanto vero che da questo tipo di dichiarazioni possiamo fare una valutazione importante su chi parla, o almeno sulla sua propensione a dare giudizi estremi su cose che non sempre si possono capire. Ma non trasformeremo il nostro appuntamento domenicale in un’analisi del passato di Paul Krugman, soprattutto perché è il presente ad interessarci di più.

“Vile, tu uccidi un uomo morto”

Scomoderemo, per scopi squisitamente letterari, la famosa frase del Ferrucci nei confronti di Maramaldo. Niente di più, niente di meno, perché Bitcoin non è un uomo e, soprattutto, non è morto né sta morendo. Torniamo al presente di Paul Krugman e alla sua tendenza ad occupare gli (enormi) spazi che la stampa gli concede con l’ennesima invettiva. Un’invettiva che per livello ricorda più il meme del vecchio che urla al cielo che l’analisi che ci si aspetterebbe, lo ripetiamo ancora una volta, da un premio Nobel. A fare da palcoscenico questa volta è il The New York Times, lo stesso che sta riservando a Sam Bankman-Fried un trattamento da ragazzino che ha combinato una marachella, non esattamente quello che ci saremmo aspettati nei riguardi di qualcuno che ha fatto sparire (almeno) 10 miliardi di dollari.

Procediamo con ordine, rimandando all’articolo originale per chi volesse leggerlo tutto.

Stiamo attraversando, dicono in molti, un inverno cripto. Ma forse stiamo sottovalutando la situazione. Questo sembra sempre di più come Fimbulwinter, l’inerno eterno che nella mitologia norrena precede la fine del mondo – in questo caso del mondo cripto, non solo le criptovalute, ma l’idea di organizzare la vita economica intorno alla famosa “blockchain”.

Letta così potrebbe sembrare anche una posizione che potrebbe incontrare il favore di diversi bitcoiner, quelli sulla parte più estrema dello spettro, che vedono nella blockchain poco più di un trucco di marketing. Comprensibile, per molti anche condivisibile, ma Paul Krugman si spinge molto più avanti, non separando Bitcoin dal resto dei progetti e non avendo alcun tipo di comprensione del fenomeno. Cosa che ammette egli stesso poco dopo.

Il fondamento logico per Bitcoin era che [grazie alla blockchain] avrebbe fatto a meno della necessità di fiducia – non ci saremmo dovuti preoccupare delle banche che si portano via i nostri fondi o i governi che causano inflazione. In realtà però le banche raramente derubano i propri clienti, mentre le istituzioni cripto più facilmente soccombono a questa tentazione e l’inflazione estrema che distrugge il valore della moneta accade in genere solo nel mezzo del caos politico.

Non una chiacchiera da bar di periferia, ma il parere, lo ricordiamo, di un premio Nobel. Il fondamento logico di Bitcoin non riguarda (soltanto) la paura che terzi possano sottrarci i fondi, ma fa parte di un più articolato complesso di questioni che riguardano l’accesso al sistema bancario.

È comprensibile che un premio Nobel nonché professore di grande successo, un law abiding citizen, non senta il bisogno di accesso ad un sistema monetario senza intermediari. Krugman può entrare in una qualunque filiale di Chase o Wells Fargo e ottenere quanti conti vuole, fare transazioni con chi preferisce, senza preoccuparsi fondamentalmente di nulla.

Non tutti vivono nel privilegio – per carità, guadagnato – di Paul Krugman. C’è chi deve proteggere la propria identità, chi non gode di tutta questa fiducia da parte delle banche, chi deve effettuare transazioni che il regime politico ritiene illegali.

Sì, l’obiezione a quanto abbiamo appena affermato è che se un’attività è criminale allora questa non dovrebbe avere luogo. Ma ci permettiamo sommessamente di ricordare ai nostri lettori che i loro comportamenti abituali e legali in Italia possono essere invece crimini in altre parti del mondo. La libertà di parola? Un miraggio per i dissidenti. La persecuzione politica? Una realtà concreta.

Certi tipi di commerci? Impossibili in diverse parti del mondo. La possibilità di accedere a denaro digitale se si vive nelle periferie del terzo mondo? Praticamente zero. In soldoni, check your privilege, Paul.

L’accusa di antisemitismo agli appassionati di Bitcoin

E qui chiudiamo, perché a tutto c’è un limite e dovrebbe esserci un minimo di rispetto per la decenza. Di cosa parliamo? Di un pezzo dell’articolessa di Paul Krugman che forse sarà sfuggito ai più, ma che dovremo pur commentare per capire il livello della discussione.

Probabilmente è stata una combinazione di fattori [su come l’industria “cripto” sia diventata così importante, NDR]. L’ideologia politica ha giocato un ruolo: non tutti gli appassionati cripto sono di destra, ma la sfiducia nelle banche – sappiamo tutti chi le controlla – e nel denaro gestito dagli stati ha offerto un supporto forte.

Il riferimento, è chiaro per chi segue un minimo il dibattito pubblico americano, è alla convinzione che a controllare le banche siano gli ebrei. E dunque Krugman si gioca la carta dell’antisemitismo come giustificazione unica dell’avversione che il mondo cripto e Bitcoin potrebbe avere verso le banche.

E come motivo che li spingerebbe verso imprese cripto come FTX che, udite udite, era di proprietà di Sam Bankman-Fried, anche lui a quanto ci risulta di origini ebraiche. Qui evidentemente l’antisemitismo che permea gli appassionati del settore non si applica. Farneticazioni, che anche a difesa dell’onorabilità di chi opera in questo mondo dobbiamo rispedire al mittente senza aspettare un minuto di più.

No, questa è non è discussione pubblica. No, questo non è un confronto alla pari. Questo è avvelenare i pozzi per poi lamentarsi dei toni sempre più esasperati sui social network e nel dibattito pubblico in generale. Paul Krugman è parte problema, e non, come vorrebbe far apparire, la soluzione. E questa sarà l’ultima volta che dibatteremo delle sue idee. Non perché contro Bitcoin, ma perché contro l’onorabilità di milioni di persone che seguono questo settore, che lo apprezzano per motivi più articolati dell’odio verso gli ebrei che governano le banche. Da un premio nobel per l’Economia ci saremmo aspettati qualcosa di più articolato della reductio ad Hitlerum.